Hai mai sentito parlare di offloading cognitivo? Si tratta dell’espressione con cui si indica l’atto del delegare a un supporto esterno, come un’intelligenza artificiale, ciò che normalmente viene fatto dalla mente umana. Un’esternalizzazione del pensiero critico, in sostanza.
Il
MIT Media Lab ha analizzato questo fenomeno nel recente studio "
Your brain on ChatGPT: Accumulation of cognitive debt when using an AI assistant for essay writing task”. L’obiettivo? Capire cosa succede nel cervello umano quando si scrive un testo con l’aiuto dell’AI.
I ricercatori hanno coinvolto 54 studenti e studentesse, la cui attività cerebrale è stata monitorata con un encefalogramma. Divisi in tre gruppi, hanno eseguito lo stesso compito – redigere un testo – ma con tre modalità diverse: in completa autonomia, utilizzando i motori di ricerca tradizionali e sfruttando un chatbot. Alla fine, è stato valutato quanto ricordavano del contenuto e quanto si sentivano coinvolti nel processo di scrittura.
I risultati parlano chiaro soprattutto rispetto alle persone appartenenti al gruppo a cui è stato chiesto di utilizzare l’IA:
- Connettività cerebrale ridotta fino al 55% rispetto a chi invece ha eseguito il compito facendo affidamento unicamente sulla propria creatività;
- Difficoltà a ricordare il contenuto dei propri scritti, solo il 16% degli appartenenti al gruppo è stato in grado di citarlo;
- Bassa percezione di ownership del testo, con una conseguente riduzione del senso di responsabilità rispetto alle scelte logiche, linguistiche e concettuali.
Ma c’è di più. Tra gli effetti dell’offloading cognitivo c’è anche una forma di dipendenza dall’IA nella fase di elaborazione delle idee. Quando il gruppo che a cui è stato detto di utilizzare strumenti digitali per scrivere è passato alla scrittura autonoma, è stato registrato un aumento dell’attività cerebrale. Che però non è tornata al livello di chi, invece, ha lavorato in autonomia. Al contrario, chi ha usato un chatbot per la prima volta ha registrato un piccolo picco iniziale, seguito però da una perdita di profondità cognitiva.
L’IA è uno strumento potente, che può alleggerire il carico, stimolare nuove idee e farci risparmiare tempo. Ma non può — e non deve — diventare un sostituto del nostro pensiero. Soprattutto nei contesti educativi, è fondamentale restare vigili su ciò che accade nella mente mentre impariamo, scriviamo, costruiamo un pensiero.
La domanda, allora, è semplice ma urgente: come possiamo abitare la scuola e l’università restando presenti nel processo, senza lasciare che a pensare al posto nostro siano le macchine? Ecco, questo è proprio una di quelle domande a cui proveremo a dare risposta il 18 ottobre, a Parole A Scuola.