Ciao!
Ciclicamente, accade qualcosa che ci costringe a fermarci. A osservare, a riflettere. Succede quando sui social, l’odio prende il sopravvento e colpisce – con violenza – anche una persona delle istituzioni. È successo al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. È successo a Laura Boldrini. Questa volta, però, c’è un elemento in più. Uno che fa particolarmente male. Perché l’odio ha colpito una bambina. Sette anni. Figlia di una figura pubblica, ma pur sempre una bambina.
Probabilmente ne hai già sentito parlare. Ma ricostruiamo i fatti, perché servono a capire cosa non può più essere considerato “solo un post”.
Stefano Addeo, insegnante in provincia di Napoli, ha pubblicato un messaggio in cui augurava alla figlia di Giorgia Meloni la stessa sorte di Martina Carbonaro, giovane vittima di femminicidio. Un messaggio subito cancellato, ma ormai diventato virale. Che ha scatenato indignazione, condanna e… altro odio.
Addeo, sopraffatto dalla reazione online, ha tentato il suicidio attraversi un mix di farmaci. È stato ricoverato in codice rosso a Nola ma salvato tempestivamente. Il suo gesto però resta. Così come resta il suo messaggio. E le sue conseguenze.
Non è un caso isolato. È uno schema. E lo abbiamo già visto troppe volte. Ma questa vicenda ci costringe a fermarci su tre punti fondamentali:
Il superamento dei limiti della critica politica
C’è un confine tra dissenso e violenza verbale. Un confine che in questo caso è stato oltrepassato. Quando si tirano in ballo tragedie reali, quando si coinvolgono soggetti estranei – soprattutto minori – non siamo più nel campo della critica. Siamo altrove.
La responsabilità sociale e professionale
Un’insegnante educa. Anche fuori dall’aula. Anche con un post. Per questo il gesto di Addeo è apparso ancora più grave. Le parole non sono mai neutre, soprattutto quando vengono da chi ha il compito di formare coscienze.
La viralità dell’odio
Il post ha generato indignazione, certo. Ma anche nuove minacce, nuovi insulti. Contro Addeo, contro altri. È il meccanismo dell’odio che si autoalimenta, fino a straripare. E spesso lo fa con le stesse modalità che aveva originato.
Per provare a capire cosa ci insegna tutto questo, ne abbiamo parlato con Bruno Mastroianni: filosofo, esperto di comunicazione di crisi e autore di libri come La disputa felice e Tienilo acceso.
Un insulto a una bambina di 7 anni.
Poi la folla inferocita che si scaglia contro l’odiatore che non regge l’onta e tenta il suicidio. Bruno, quindi è vero che l’odio genera odio? Sì, direi che qui vediamo all’opera una dinamica purtroppo frequente. Tutto inizia con un atto d’odio nei confronti di una bambina di 7 anni, innocente. Ma poi l’odio rimbalza: si riversa sull’odiatore, su chi ha compiuto per primo quel gesto. Anche se la prima azione è più grave — perché colpisce un minore —, è importante sottolineare che anche l’odio “di ritorno” produce solo danni. Questo ci dice molto su come funziona l’odio: è una forma comunicativa che mira all’eliminazione dell’altro, anche quando simbolica, fatta di parole. Eliminare l’altro — privarlo della sua dignità — è sempre un male. Lo è in modo estremo quando riguarda un innocente, ma lo è anche se l’altro ha sbagliato. L’odio resta odio, e il vero nemico da combattere è proprio questo meccanismo.
Quando l’hate speech colpisce una figura istituzionale, come cambia – se cambia – la narrazione pubblica? È più facile giustificare, amplificare o legittimare l’attacco?
C’è sempre una doppia amplificazione: da una parte quella dovuta alla rete, che può rendere virale qualsiasi contenuto, anche pubblicato da un account poco seguito, se contiene odio e ha come bersaglio una figura pubblica. Dall’altra, c’è l’amplificazione di ritorno, generata dai media tradizionali che ne parlano, e dalle reazioni pubbliche delle persone coinvolte. Così l’episodio diventa un caso mediatico. Attenzione però: non tutto è “odio”. C’è differenza tra dissenso legittimo e discorso d’odio. Una protesta forte, anche dura, può nascere da una frustrazione reale, specie quando espressa da chi subisce ingiustizie. Ma quando si supera il limite, e si entra nel desiderio di eliminare l’altro — fisicamente o simbolicamente — siamo fuori da ogni legittimità.
Dove si trova, secondo te, il limite tra dissenso politico e discorso d’odio?
Il confine è chiaro: il dissenso, anche forte, esprime differenze di visione, rifiuto di valori, opposizione. Ma l’altro resta persona, resta interlocutore. L’odio, invece, scatta quando non si rifiutano più solo le idee, ma la persona stessa. Quando si augura del male, si invoca violenza, si toglie all’altro la dignità di essere umano. A quel punto, non c’è più dibattito, non c’è più confronto. C’è solo distruzione. La differenza è tutta qui: nel rispetto della persona. Finché resta quello, si può discutere anche in modo acceso. Ma se lo perdiamo, entriamo in un terreno che fa solo danni.
Qual è la lezione che possiamo imparare da questo episodio?
La prima, fondamentale: c’è un bisogno urgente di educazione al digitale e alfabetizzazione emotiva e civica. Bisogna sapere dove siamo quando scriviamo online, capire che i nostri contenuti possono essere amplificati all’infinito. “Non lo sapevo” non è più una scusa.
La seconda: servono campagne di sensibilizzazione, per riconoscere l’odio e non accettarlo mai. Anche quando è “contro chi ha sbagliato”, anche quando sembra comprensibile. È odio, e produce solo male.
E infine — ma forse è il punto più importante — dobbiamo lavorare sulla cultura del dissenso, sulla capacità di esprimere obiezioni, proteste, disaccordo, anche forte, ma senza annullare l’altro. Dobbiamo reimparare a discutere. A contraddirci con le parole, non a distruggerci con le parole. Una cosa è la contrapposizione, un’altra è la contraddizione: mettiamoci dentro le nostre differenze per cercare di capirci meglio. È l’unico modo per salvare noi stessi — e le nostre relazioni — dalla deriva dell’odio.
A chiusura di questa prima parte vogliamo aggiungere solo una cosa, che racchiude e racconta qual è il nostro approccio agli episodi di odio e violenza.