Ciao!
Oggi più che mai è fondamentale scegliere consapevolmente cosa ci piace e cosa no, quali contenuti amplifichiamo, quali parole sosteniamo. Perché, anche online, ogni pollice in su è una presa di posizione.
Nonostante ci sia un cambiamento in atto, il tasto like rappresenta ancora qualcosa di importante. Un libro pubblicato nel 2025 (
“Like: The Button that Changed the World”) ha ripercorso la storia e il ruolo proprio del tasto Like, sottolineando come nel tempo sia diventato il simbolo globale di approvazione digitale. Con oltre 160 milioni di utilizzi al giorno,
il Like non è solo un gesto: è una valuta emotiva, un motore algoritmico, un filtro di realtà.Ma a che prezzo?
Il Like ha rivoluzionato il modello di business delle piattaforme social, incentivando la produzione e il consumo di contenuti grazie a un feedback immediato e visibile. La sua introduzione ci ha dato la percezione di partecipare a una grande discussione globale, dove con un semplice gesto superiamo la nostra passività davanti agli eventi e alle cose, anche se forse potremmo aver ridotto la profondità delle interazioni personali.
Uno studio pubblicato nel 2024 ha evidenziato come le giovani generazioni utilizzino i pulsanti di reazione (Like, Share, ecc.) non solo per esprimere consenso, ma anche per rafforzare legami di gruppo, cercare approvazione nelle relazioni e, soprattutto, gestire l’ansia sociale.
E quando un Like non arriva… resta il vuoto. Il dubbio. L’insicurezza. Eppure in tempi recenti le principali piattaforme social hanno iniziato a spostare l’attenzione dal semplice conteggio dei Like verso forme di interazione più profonde. Gli algoritmi attualmente privilegiano discussioni, condivisioni e commenti, premiando i contenuti che generano conversazioni autentiche piuttosto che quelli con semplici reazioni.
Come scrivono gli autori del libro di cui parlavamo prima, Martin Reeves e Bob Goodson, quella del tasto Like è una storia fatta di incontri in Silicon Valley, intuizioni geniali e dipendenze da dopamina. Persino Mark Zuckerberg inizialmente lo giudicava “una banalità”, poi sappiamo che è diventato il cuore pulsante di Facebook e di tutto ciò che è venuto dopo. Il pulsante “Mi piace” ha anche creato nuove dipendenze, diventando una nuova modalità di misurazione del valore personale e alimentando insicurezze. Soprattutto tra i più giovani.
Da qui nasce anche il grande dibattito che si porta avanti da anni sul tasto “Non mi piace”. Molti temono infatti che questo tasto possa alimentare fenomeni di cyberbullismo, aumentare il disagio psicologico, soprattutto tra i più giovani, e incentivare una cultura della negatività e del giudizio distruttivo. Le piattaforme social, consapevoli di questi rischi, hanno finora evitato di introdurre un pulsante di disapprovazione universale, preferendo soluzioni più moderate come le "reaction" emotive che includono anche espressioni di tristezza o rabbia.
E tu? Ci hai caso ai like che metti ogni giorno?
“Subathon”, sai cosa vuol dire?
C’è chi va in live per qualche ora al giorno. E poi c’è chi, come Emilycc, ha deciso di non staccare (quasi) mai. Streamer statunitense, Emily ha trasmesso la sua vita su Twitch per oltre 1.300 giorni di fila, 24 ore su 24. Ha iniziato nel novembre 2021 e non ha più smesso. Colazioni, passeggiate col cane, videogiochi, momenti di noia, trucco, relax… tutto in diretta, sempre. Tutto, tranne il bagno.
Emily vive così: sotto gli occhi della rete. Lo chiamano subathon, una maratona continua di streaming in cambio di abbonamenti e donazioni. Un modello che l’ha resa celebre – e che le garantisce guadagni importanti – ma che ha anche un costo: nessuna vacanza, pochi rapporti familiari, zero privacy. Una scelta estrema, che divide: da un lato la fascinazione per la connessione continua, dall’altro la solitudine di chi è sempre connesso con i suoi 380.000 follower.
Ma il vero punto non sono i numeri. È la domanda che ci lascia addosso: quanto siamo disposti a condividere di noi per sentirci visti? Forse sono domande a cui oggi non sappiamo dare una risposta, perché troppo vicini al centro delle cose. Ci servirà del tempo per comprendere bene meccanismi e distorsioni delle nostre vite digitali.
La sua storia, nel frattempo, è un esempio potente di come il digitale stia riscrivendo le regole dell’intrattenimento e della socialità.
A Pieris, un murales alto quasi 5 metri per ricordare i principi del Manifesto della comunicazione non ostile. È il risultato di WallMe3, un progetto che ha portato i ragazzi della scuola secondaria a interrogarsi sul potere delle parole, partendo proprio dal nostro decalogo.