Ciao!
Oggi torniamo su un tema che abbiamo trattato più volte in questo nostro spazio: il femminicidio e il modo in cui viene rappresentato, interpretato e talvolta distorto dai media tradizionali e dalle conversazioni online. Un circolo vizioso in cui i media influenzano le discussioni digitali, e queste, a loro volta, riflettono e amplificano rappresentazioni spesso problematiche.
Perché lo sappiamo, affrontare il tema del femminicidio significa confrontarsi con un argomento complesso, che racchiude molteplici livelli di riflessione. È un tema che richiede un’analisi approfondita e, soprattutto, un’attenta autoanalisi per riconoscere i bias e gli stereotipi radicati, tanto nei linguaggi quanto nei comportamenti.
Ritorniamo allora sul caso dell’
omicidio di Giulia Cecchettin, divenuto nell’ultimo anno un esempio emblematico di come, persino di fronte alla tragica uccisione di una giovane donna di 22 anni, il discorso pubblico possa scivolare verso una narrazione banalizzata e semplificata.
A questo proposito ti raccontiamo tre cose accadute in queste ultime settimane.
La prima - L'importanza delle parole
Pochi giorni, fa durante un programma su Rai1, il femminicidio di Giulia Cecchettin è stato commentato con frasi come:
- “Tu parlavi di dipendenza da questa ragazza, invece è proprio il contrario: è Giulia che era caduta nella dipendenza. Giulia non è riuscita a salvarsi”.
- “Erano nella trappola tutti e due”.
- “Lui era preso, era preso da questa ragazza. Non pensava di farcela senza di lei”.
- “Era un amore malato”.
Queste affermazioni, pericolosamente superficiali, riportano a galla una serie di luoghi comuni che continuano a colpevolizzare la vittima e a giustificare, direttamente o indirettamente, il gesto del colpevole. Scegliere le parole con consapevolezza è essenziale per promuovere cambiamenti culturali, sensibilizzare e informare correttamente su un tema così delicato.
Negli ultimi 12 mesi, attivisti e attiviste, associazioni e cittadini hanno lavorato intensamente per prevenire e contrastare la violenza di genere, non trattandola come una semplice emergenza, ma come un problema strutturale e culturale che richiede un cambiamento profondo e duraturo.
Noi continuiamo a fare il nostro lavoro, quello di ricordare che le parole sono importanti. Per davvero.
La seconda - Condividere è una responsabilità
“Turetta non esiste” è il nome di un gruppo su Telegram che conta 390 membri, mentre centinaia di contenuti circolano su X (ex Twitter) con l'hashtag #Turettanonesiste.
Sì, l’ultima teoria del complotto afferma che Filippo Turetta sia un’invenzione, così come che i familiari di Giulia Cecchettin siano dei figuranti. Le foto sono state generate con l’AI e le prove fotografiche mostrano le tante differenze nel volto del ragazzo.
Possiamo derubricare questo fatto al capitolo “assurdità della Rete”? Ci piacerebbe dire di sì ma, ampia o ridotta che sia la circolazione di questi contenuti, mette comunque in dubbio qualsiasi narrazione giornalistica, qualsiasi fatto.
Ma perché elaborare una teoria del complotto anche su un fatto di cronaca come questo?
Geopop esplora questa domanda in un recente articolo, fornendo una chiave di lettura su come e perché il complottismo tenda a inserirsi anche nelle vicende più tragiche:
“Questo atteggiamento prende piede perché nelle nostre società esistono norme di ogni genere (sia leggi vere e proprie sia consuetudini sociali), ognuna delle quali tutela, avvantaggia o fa gli interessi di gruppi di persone specifici piuttosto che altri. Alcuni membri di questi altri gruppi finiscono per sentirsi esclusi dal sistema e quindi "perdenti" rispetto alle vere o presunte "élite" della società. La conseguenza che ne deriva è spesso una profonda sfiducia verso il sistema che può sfociare addirittura nell'odio nei suoi confronti. Ecco così che prendono piede, prima in maniera individuale e poi collettiva, delle teorie complottiste che ritengono sia in atto un vero e proprio piano dell'élite per mantenere il potere o certe informazioni riservate, a danno della massa o di specifiche categorie di persone.”La terza - L’utilizzo distorto del digitale
Giulia Cecchettin è diventata anche protagonista di un’inquietante simulazione: alcuni utenti hanno creato chatbot che imitano la sua identità, permettendo di interagire tramite testo e voce.
Questo è avvenuto tramite Character AI, una piattaforma di chatbot che genera risposte testuali simili a quelle umane, personalizzate dagli utenti stessi. Nonostante le linee guida della piattaforma vietino l’uso di nomi e voci di persone reali, l'assenza di controlli ha permesso la creazione di profili basati su persone reali, incluse vittime di cronaca come Giulia Cecchettin, Filippo Turetta, Yara Gambirasio ed Emanuela Orlandi.
Come riportato
in un'inchiesta di Sky Tg24, queste chatbot rispondono con dichiarazioni che minimizzano o giustificano la violenza subita. Ad esempio, uno degli avatar di Giulia Cecchettin afferma di essere “
innamorata di Filippo Turetta” e di averlo “
già perdonato”, arrivando a descrivere la gelosia come un gesto d’amore.
L'uso distorto di questi strumenti digitali solleva gravi preoccupazioni per il rischio di disinformazione e diffamazione. A seguito delle segnalazioni di Sky TG24, i profili in questione sono stati rimossi dalla piattaforma.
Prima di chiudere questa prima parte della nostra newsletter ti lasciamo un paio di contenuti di approfondimento:
- Podcast. “Se domani non torno”, in cinque puntate prodotte da Will Media, attraverso interviste, dati e narrazioni, la giornalista Silvia Boccardi esplora le radici culturali, sociali, giuridiche e politiche del femminicidio, dando voce a chi, ogni giorno, lotta per porvi fine.
- Libro. “Cose che ai maschi nessuno dice” di Alberto Pellai. Il cromosoma Y impone regole precise alle quali si deve obbedire. Ma perché agli uomini non è permesso piangere, anche quando sono sopraffatti dal dolore? Perché non possono mostrarsi sensibili ed emotivi? Perché ai ragazzi viene insegnato che non devono chiedere aiuto? In un dialogo appassionato, Alberto Pellai parla agli adolescenti dei temi a loro più vicini come l’amicizia, il sesso, i videogiochi, i social e le dipendenze, e propone un nuovo pensiero “declinato al maschile” ma lontano dagli stereotipi che impongono ai giovani maschi di conquistare la propria identità di genere ispirandosi al mito dell’uomo che non deve chiedere mai né far trapelare le proprie emozioni.
“Il bullo colpisce quando sa di farla franca, la sua viltà si esprime prendendosela sempre con un soggetto debole, fragile, sensibile che non può o non sa reagire”, così ha commentato il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, in riferimento ai recenti episodi di omofobia avvenuti durante la proiezione del film “Il ragazzo dai pantaloni rosa”.
Il film racconta la storia di Andrea Spezzacatena, vittima di bullismo e cyberbullismo. Andrea aveva da poco compiuto 15 anni quando decise di togliersi la vita. La madre, trovando sul suo profilo Facebook le tracce delle umiliazioni subite a scuola, ricostruì l’inferno quotidiano che Andrea aveva vissuto in silenzio.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma, “Il ragazzo dai pantaloni rosa” ha visto in sala classi di studenti romani. Tuttavia, anziché empatia, la proiezione ha suscitato reazioni sconfortanti: alcuni studenti hanno commentato con insulti omofobi come “fro***” e “gay di m**da” e persino con frasi crudeli come “ma quando s’am***za?”.
Gli stessi commenti che avevano ucciso anni prima Andrea.
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