Ciao!
Dal 2020, l'Unione Europea dedica l'intero mese di maggio a celebrare la diversità. Un'occasione per sensibilizzare sul valore dell'inclusione e per promuovere ambienti più equi e rispettosi, oltre che un'importante opportunità per riflettere sui progressi compiuti e sulle sfide ancora da affrontare nella costruzione di una società più inclusiva e rispettosa delle differenze.
Quest’anno la cerimonia d’apertura è stata inaugurata con la premiazione delle Capitali Europee dell'Inclusione e della Diversità. Un riconoscimento assegnato a città, comuni e regioni dell'UE che si sono distinti nel promuovere l'inclusione. Tra le città con più di 50.000 abitanti, Zagabria, in Croazia, si è aggiudicata il primo posto per il suo impegno concreto nella lotta alle discriminazioni e nella promozione della diversità. Tra i centri con meno di 50.000 abitanti invece, il primo posto è andato all’italiana Corbetta, che ha ricevuto anche il premio del pubblico. Il piccolo centro dell’hinterland milanese ha vinto grazie al suo "approccio sistematico nell'affrontare la diversità e l'inclusione e la sua partecipazione a una rete nazionale contro la discriminazione LGBTIQ+, unitamente alle iniziative volte ad affrontare gli stereotipi di genere, a fornire centri socio-educativi per le persone con disabilità e a migliorare l'accessibilità degli spazi pubblici".
Ma cosa sono esattamente le politiche di diversità e inclusione? In inglese dette anche Diversity & Inclusion (D&I), sono quelle strategie aziendali che mirano a creare un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso delle differenze individuali, dove ogni persona si senta libera di esprimere se stessa e di dare il meglio di sé. Queste politiche hanno come obiettivo quello di livellare tutte le differenze legate a: genere, età, etnia, religione, ideologia, abilità, orientamento sessuale. Perché un ambiente inclusivo aumenta la motivazione e la produttività dei dipendenti, favorisce la creatività e l'innovazione, e migliora la reputazione dell'azienda sul mercato.
Obiettivi che non rientrano soltanto a un livello privato delle strutture aziendali ma che diventano obiettivi fondanti dell’Agenda 2030, sottoscritta dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU. Agenda che tra i 17 obiettivi da raggiungere include proprio la
parità di genere e la
riduzione delle disuguaglianze.
Qual è la situazione in Italia in merito alle politiche di diversità e inclusione? Adecco ha intervistato oltre 500 imprese e quasi 5.000 candidati e ha scattato una fotografia dello stato attuale:
- il 51,7% delle aziende italiane è “molto” o “abbastanza” impegnata sul fronte delle D&I
- nel dettaglio, il 54,3% delle organizzazioni large, con più di mille collaboratori e collaboratrici, dichiara di impegnarsi “molto”. Viceversa, la metà (50,3%) delle small dichiara di non impegnarsi affatto.
Dati che però mal si abbinano ad altri che ci dicono che:
- meno della metà (il 41%) delle aziende intervistate ha messo a punto una strategia di D&I, e solo il 22% ha un budget definito.
- infatti, quasi otto lavoratori su dieci affermano che non viene proposta alcuna attività di formazione su questi temi.
Insomma, c'è sicuramente ancora molto da fare per quanto riguarda la sensibilizzazione sul tema delle politiche di diversità e inclusione, ma senza dubbio si è recuperato parecchio terreno nel nostro Paese, soprattutto negli ultimi anni.
Parole O_Stili, nel suo piccolo, accompagna ogni giorno numerose aziende in questo percorso di acquisizione di consapevolezza e responsabilità. Un impegno che ci gratifica e che ci fa guardare con speranza al futuro, orgogliosi di condividere con imprese, istituzioni e realtà del terzo settore quel valore che vede nella diversità un fattore di crescita culturale e sociale.
SulMIT Technology Review, magazine del Massachusetts Institute of Technology, abbiamo intercettato un approfondimento molto interessante sul termine “utente”.
Secondo la Treccani “utente” è “persona o dispositivo che faccia uso di sistemi d’elaborazione dei dati per ottenere o elaborare dati e per scambiare informazioni.”
Taylor Majewski sull’articolo citato traccia la storia del termine, annotando come questo possa essere fatto risalire agli anni ‘50 quando i computer erano grandi come delle stanze e non era molto comune possederne uno. Nonostante però negli anni ‘90 iniziarono a entrare nelle nostre case abbiamo continuato a chiamare utenti le persone che li usavano, una cosa bizzarra dato che tante altre invenzioni del XX secolo avevano acquisito terminologie più specifiche, vedi la diffusione delle auto con i suoi “proprietari di auto”.
È proprio con gli anni ‘90 e con i lavori dello scienziato cognitivo della Apple, Don Norman, e i suoi studi sull’ “”architettura dell’esperienza utente” (
UX, ti dice qualcosa?) che il termine “utente”, “user” in inglese, viene adottato dal linguaggio di massa.
Oggi però viviamo in un mondo in cui le intelligenze artificiali vengono percepite con qualità antropomorfiche, hanno nomi di persona - pensa a Alexa e Siri - e possono sostenere delle conversazioni verosimili con gli esseri umani. In questa cornice allora, perché le persone che utilizzano dei dispositivi digitali vengono chiamate in modo così impersonale e vengono quasi poste sullo stesso piano della macchina?
È stato proprio lo stesso Don Norman a porsi, molti anni dopo, un importante quesito: “Se progettiamo per le persone, perché non chiamarle così?”
Il dibattito sul termine "utente" è solo agli inizi, ma rappresenta un'occasione importante per ripensare il nostro rapporto con la tecnologia e per costruire un futuro digitale più umano e inclusivo.
Partire dal linguaggio vuol dire considerare la complessità delle relazioni che si instaurano tra esseri umani e macchine.