Ciao!
Questa settimana ci sono tantissime cose di cui parlare, quindi iniziamo subito. In questa newsletter troverai cinque notizie e un’intervista per riflettere su come comunichiamo, su ciò che scegliamo di dire (o di non dire) e sul potere che le parole hanno, ogni giorno, di costruire o di ferire.
Prima di iniziare, però, condividiamo con te una novità: sono disponibili online tutte le registrazioni degli interventi che hanno animato la conversazione lo scorso 18 ottobre, durante la terza edizione di Parole a Scuola.
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Le trovi tutte qui.
La politica statunitense e i social
34 anni e originario dell’Uganda,
Zohran Mamdani è il nuovo sindaco di New York e la sua vittoria non è solo politica, ma anche comunicativa. La sua campagna elettorale infatti è stata costruita attorno a parole semplici come
casa,
sicurezza,
lavoro e
futuro, per condividere una visione centrata sulle persone e i loro bisogni.
Il suo modo di comunicare, diretto ed empatico, gli ha permesso di costruire una comunità, di cui i social sono stati la vera spina dorsale. Mamdani non si è limitato ad utilizzare le piattaforme, ma le ha abitate e trasformate in spazi di dialogo multilingua dove ascoltare e raccontare la complessità con intelligente ironia, senza mai banalizzare i diversi argomenti trattati.
Un cambio di rotta significativo, in particolare perché avviene in un sistema politico che - soprattutto a destra e non solo negli Stati Uniti - basa le proprie strategie comunicative non tanto sul valore delle proposte, ma sulla capacità di occupare uno spazio definito all’interno dell’attenzione pubblica. Tra provocazioni e meme, l’arte di saper ridere di sé è una delle possibili applicazioni di questa modalità. Un esempio?
Il video del vicepresidente JD vance in cui indossa una parrucca riccia ad Halloween.
Eppure, tra le posizioni di un dibattito sempre più polarizzato, la vittoria di Mamdani ricorda che la chiarezza, la coerenza e l’ascolto sono ancora una forma di potere. Un potere gentile, ma capace di cambiare le cose davvero.
L’Italia è uno dei pochissimi Paesi europei dove l’educazione sessuale e affettiva non è obbligatoria a scuola. Fin qui, niente di nuovo. Ma qualche giorno fa,
Vera Gheno ha pubblicato un’analisi che mostra quanto sia profonda questa assenza anche nei documenti più recenti del Ministero dell’Istruzione dedicati a questo tema. Parole come “sesso”, “sessualità” e “genere” scompaiono quasi del tutto, sostituite da termini più vaghi che parlano di rispetto e gentilezza ma svuotano di sostanza l’educazione e le persone.
Come ricorda Gheno, il rischio è quello che la filosofa Miranda Fricker definisce “ingiustizia ermeneutica”: negare alle persone gli strumenti linguistici per comprendere sé stesse e la propria identità. Non nominare la complessità non la cancella, la rende solo meno comprensibile. E quando le parole mancano, il vuoto che lasciano viene spesso riempito da ignoranza, stereotipi, paura. E, troppo spesso, violenza.
«Se pensate che questa città non abbia bisogno di educazione sessuale e affettiva, siete molto lontani dalla realtà», ha detto ai presenti, dopo aver letto messaggi che nessuno dovrebbe mai ricevere né tantomeno scrivere.
Da questa settimana in Italia esiste ufficialmente
l’Albo degli influencer istituito da AGCOM. Chi supera i 500mila follower dovrà iscriversi all’albo e rispettare regole simili a quelle dei media tradizionali: trasparenza nei messaggi commerciali, riconoscibilità dei contenuti politici, responsabilità nel linguaggio.
Una novità che segna un passaggio importante, riconoscendo che quando una voce arriva a moltissime persone, allora non è più solo questione di “creatività online”, ma entra in gioco la comunicazione pubblica. E anche sul web vale lo stesso principio di sempre, ovvero le parole sono un patto con chi ascolta. Più sono chiare, più quel patto si rafforza.
In questa newsletter abbiamo attraversato tanti paesaggi linguistici: parole che uniscono e parole che dividono, scelte che costruiscono ponti e altre che fanno scintille. Dalle campagne che nascono per cambiare la cultura al linguaggio politico che diventa spettacolo, fino ai silenzi che cancellano interi pezzi di realtà.
Per ricordarci che le parole non sono solo strumenti, ma luoghi - habitat in cui prendono forma pensieri, relazioni e possibilità - abbiamo chiesto un pensiero a Laura Nacci, divulgatrice linguistica e alla direzione della formazione di SheTech, che con le parole lavora come con semi: scegliendole, coltivandole, riportandole alla loro verità più semplice e profonda.
Ultimamente abbiamo assistito a un uso delle parole in politica come arma o spettacolo, ma anche come ponte, come nel caso di Mamdani, che a New York ha costruito consenso con linguaggio semplice, concreto e coerente. Dal tuo punto di vista, cosa rende una parola capace di avvicinare davvero le persone e non solo conquistarle per un click o un applauso?
Metterle al centro. Quando parliamo di comunicazione, invece, anche nelle nostre vite quotidiane, ci concentriamo prevalentemente su quello che abbiamo da dire. Io credo che la stessa cosa accada per tutte le forme di comunicazione, anche quella politica. Nel caso di Mamdani, per esempio, ha saputo raccontare con lingue e linguaggi variegati le storie (vere) delle persone che ha incontrato, in cui molte donne e molti uomini hanno potuto riconoscersi.
Così facendo, ha dimostrato di vedere, accogliere e dare voce alle differenze che compongono la popolazione, una varietà che è insita nella natura umana e che ritroviamo quindi in qualsiasi ambiente.
E poi c’è un tema importantissimo quando si vogliono raggiungere veramente le persone: l’autenticità. Che dev’essere coerente e ben visibile a chiunque.
Per Mamdani si tratta di una “autenticità amplificata”: i suoi messaggi sono arrivati, infatti, al grande pubblico grazie alla spontaneità dei suoi post o video, ma anche a quella delle persone a cui ha delegato parte della campagna politica, che hanno generato il passaparola e che si sono sentite coinvolte.
Riassumendo: contenuti diretti, che interessano e coinvolgono le persone, autenticità e valorizzazione delle diversità. Credo che questo sia un mix da cui tutte e tutti dovremmo prendere spunto, sia nelle comunicazioni interpersonali che in quelle istituzionali e aziendali.
Nei tuoi libri ci ricordi che la violenza sulle donne spesso comincia molto prima dei gesti: negli aggettivi che usiamo, nei modi in cui nominiamo (o riduciamo) l’identità femminile. Negli ultimi giorni le parole di Silvia Salis hanno riportato l’attenzione sull’ipersessualizzazione del linguaggio nello sport. Come riconosciamo aggettivi e registri che finiscono per ferire e normalizzare la disparità? E cosa possiamo fare, concretamente, per ridurne l’utilizzo?
Silvia Salis ha fatto una cosa molto importante e di cui parlo anch’io soprattutto nell’ultimo libro, dedicato agli aggettivi alla base della violenza sulle donne, ovvero ha messo in risalto, anche leggendo gli insulti che le sono arrivati sia in campagna elettorale che dopo, i cosiddetti “doppi standard”. Troppo spesso, infatti, non ci accorgiamo che mettiamo in atto (o subiamo) un linguaggio fatto di “parole di seconda mano”, che abbiamo ereditato, che sentiamo da sempre e che per questo ci suonano familiari, corrette. Il problema è che queste parole possono nascondere secoli di pensiero androcentrico, misogino, raccontando la realtà con “due pesi, due misure”.
Un esercizio molto semplice per individuare il linguaggio discriminante è fare la “riprova”: se sentiamo o leggiamo (o pensiamo) qualcosa che ci sembra “strano”, che ci crea disagio, proviamo a girare il discorso al maschile. Ci suona ridicolo? Assurdo? Allora vuol dire che è in atto un linguaggio sessista o comunque stereotipato, discriminante.
Come uscire da secoli di dissimmetrie (o anche asimmetrie) semantiche di genere? Non è facile e non si può fare dall’oggi al domani, ma sicuramente ognuna e ognuno di noi può iniziare ad allenarsi, nel proprio quotidiano, lasciando andare il pilota automatico con cui ci hanno insegnato a parlare e diventando più responsabili delle nostre parole e delle parole altrui.
Sabato scorso, Rosy Russo è salita sul palco di TEDxLakeComo, prendendo parte ad un’edizione dedicata al tema dell’emergenza: non solo quella che irrompe e travolge, ma anche quella silenziosa, fatta di idee nuove che cambiano il nostro modo di vedere il mondo.