Il linguaggio è l’inizio di tutto
Ogni corpo ha un modo per essere detto.Ogni storia ha un modo per essere raccontata.E spesso è proprio lì, nella grammatica quotidiana, che si decide se una persona sarà vista nella sua interezza oppure rimpicciolita dentro un’etichetta.
La disabilità non comincia con un ascensore rotto o un autobus senza pedana, ma molto prima: inizia nelle parole che ereditano un immaginario fatto di normalità presunta, fragilità assegnate, ruoli già scritti. È il linguaggio il primo luogo in cui si costruisce o si sgretola un pregiudizio.
Abilismo: quando la norma diventa un filtro
L’abilismo non è una buona intenzione andata male. È una cornice culturale. Una lente che decide cosa significa “essere come si deve” e cosa significa “essere altro”.
È la radice invisibile che rende accettabile l’idea che una persona con disabilità debba essere lodata per vivere la propria quotidianità, guidata anche quando non ne fa richiesta, interrogata su ciò che non ha chiesto di condividere.
Molte testimonianze parlano di questo meccanismo sottile: il complimento che infantilizza, il tono stucchevolmente gentile, la domanda indiscreta fatta con disarmante naturalezza. L’abilismo non urla: si infiltra nelle minuscole crepe del quotidiano e diventa abitudine.
Le parole che alzano muri
Le linee guida più autorevoli sul linguaggio ricordano che molte espressioni apparentemente neutre portano con sé un passato di esclusione: “affetto da”, “soffre di”, “handicappata”, “costretto sulla sedia a rotelle”, “speciale”, “diversamente abile”.
Sono termini che, più che descrivere, interpretano. E interpretano sempre nella stessa direzione: quella della mancanza, della sofferenza, del pietismo. Parlare più lentamente, semplificare, ricorrere a diminutivi superflui nel rivolgersi a una persona con disabilità; sottolineare continuamente quanto sia “eroica” nel vivere la propria quotidianità, di fatto spettacolarizzandola, significa ridurre una persona a ciò che non può fare o esaltarla perché “ci prova comunque”. Significa in sostanza, negarne la complessità.
Bisogna invertire completamente rotta, e mettere sempre al centro la persona. È per questo che le formule più rispettose da utilizzare rimangono “persona con disabilità” o, se preferito dall’individuo a cui ci si rivolge, “persona disabile”. Perché chi pretende di avere voce in capitolo su come viene appellato o appellata non si sta intestardendo su un tecnicismo: si sta autodeterminando.
Conteniamo moltitudini
Nessuna persona abita un’identità sola. La disabilità si intreccia con il genere, la razzializzazione, la classe sociale, l’età, l’orientamento affettivo-sessuale. Ne ha parlato molto bene la giornalista e attivista Valentina Tomirotti nella puntata dedicata alla disabilità di
Diciamolo Bene - il podcast di Parole O_stili in collaborazione con ENI - di cui è stata ospite e che
ti consigliamo di ascoltare qui.
Una donna con disabilità, quindi, affronta contemporaneamente aspettative sul ruolo femminile e pregiudizi sull’autonomia; una persona afrodiscendente con disabilità vive l'intreccio tra abilismo e razzismo; una persona con disabilità con basso reddito incontra barriere fisiche, economiche e simboliche allo stesso tempo.
L’intersezionalità non è teoria: è un modo per guardare al mondo nella sua complessità. Ed è uno strumento prezioso per comprendere come la lingua possa includere oppure moltiplicare gli ostacoli. Perché non esistono persone “vulnerabili”, ma ambienti e narrazioni che producono vulnerabilità quando ignorano l’intreccio delle identità.
Illuminante in questo senso è
il post pubblicato recentemente dal profilo Instagram
Witty Wheels, gestito dalle sorelle Elena e Maria Chiara Paolini, che denuncia una realtà significativa: per le donne disabili il rischio di subire uno stupro è triplo rispetto a quanto accade alle donne non disabili. Perché? La risposta è tanto semplice quanto terribile: la violenza contro le donne disabili è legata sia al sessismo che all’abilismo.
La disabilità come relazione, non come difetto
È tempo di comprendere davvero, affermare con forza, diffondere ostinatamente che la disabilità non è nella persona.È nell’incontro tra la persona e le barriere poste dal contesto in cui vive.
Cambiare il contesto cambia la possibilità di partecipare; cambiare il linguaggio aiuta a dare a tutti e tutte la possibilità di esistere senza essere continuamente interpretati. È un rovesciamento che libera:le relazioni tra esseri umani possono e devono essere resi equi.
Ma in pratica?
Come riconoscere e spogliarsi dall’abilismo? Se sei una persona senza disabilità e vuoi relazionarti con rispetto a una persona con disabilità, puoi partire da quattro azioni linguistiche reali e quotidiane.
Chiedi alla persona con cui stai interagendo come vuole essere nominata.
È la regola più semplice e più trasformativa. Non esiste linguaggio corretto senza autodeterminazione.
Abbandona pietismo ed eroismo
Definiresti mai una persona senza disabilità “eroica” per avere compiuto un’azione quotidiana? No, vero? Ecco… non c’è motivo di farlo nemmeno con una persona con disabilità. Non elogiare la normalità di una persona disabile come se fosse la protagonista di un’impresa epica.
Esci dal linguaggio medicalizzante
Lo abbiamo detto: la disabilità non è una malattia. Non si “soffre di”, non si è “affetti da”. Il linguaggio che mette al centro la patologia ruba spazio alla persona. Anche in questo caso, dunque, la soluzione si trova in un utilizzo ragionato delle parole.
Trasforma il linguaggio in un luogo accessibile
Cosa significa, nel concreto? Rivolgiti direttamente alla persona con cui stai parlando. Evita diminutivi o semplificazioni inutili. Non dare per scontato cosa possa o non possa fare. Non interpretare ciò che ti sta dicendo prima di aver ascoltato.
Le parole non risolvono tutto, ma aprono la strada: sono il luogo in cui si prepara l’immaginario, si costruiscono le attese, si definiscono i limiti o si cancellano. Ogni volta che scegliamo un termine con cura, spostiamo un confine. Ogni volta che ascoltiamo prima di nominare, allarghiamo il mondo.
La disabilità non è una distanza: è una relazione. E ogni relazione comincia da qui: dal modo in cui decidiamo di parlare.
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