C’è chi vede la tecnologia come un ostacolo. E chi, come Monsignor Lucio Ruiz, la riconosce come un’occasione: per comunicare meglio, per avvicinare, per costruire ponti anche tra mondi apparentemente lontani.
Padre Lucio è tra le figure più autorevoli – e visionarie – della comunicazione vaticana. Il suo lavoro ha lasciato un segno profondo nella stagione delle grandi riforme di Papa Francesco. Nel 2015 viene scelto per guidare la neonata Segreteria per la Comunicazione (oggi Dicastero per la Comunicazione), e da lì inizia una rivoluzione silenziosa, fatta di ascolto, innovazione, cura e coraggio.
Per noi di Parole O_Stili è soprattutto un amico, una persona schietta e alla mano che ci ha subito chiesto di chiamarlo solamente “Lucio”... È la persona che ci ha aiutati a fare un ritratto di Papa Francesco, del suo rapporto con la comunicazione e il digitale.
Papa Francesco ha sempre scelto parole semplici, dirette e cariche di empatia. In che modo il suo stile comunicativo ha cambiato il modo di comunicare della Chiesa?
Per Francesco, la comunicazione non è solo uno strumento istituzionale, ma un autentico atto pastorale. Attraverso il suo modo di esprimersi – fatto di gesti, silenzi eloquenti, parole semplici ma cariche di significato – egli ha contribuito a rivelare il volto di una Chiesa più vicina, umile e accogliente. Una Chiesa che ascolta, che si fa prossima a tutti, in particolare agli ultimi. In questo senso, egli incarna concretamente il desiderio di “una Chiesa povera per i poveri”, capace di annunciare il Vangelo con autenticità, tenerezza e spirito di servizio.
Fin dall’inizio del suo pontificato, nel 2013, Papa Francesco ha scelto consapevolmente un linguaggio semplice, diretto e profondamente umano. Grande sostanza teologica, semplice nella sua espressione.
Questa opzione comunicativa non è stata frutto del caso, ma il risultato di una chiara intenzione: comunicare non soltanto idee o concetti teologici, ma soprattutto vicinanza, compassione e speranza, per far sentire la Misericordia e la Tenerezza di Dio, specialmente ai più lontani e bisognosi.
La sua volontà è stata quella di rivolgersi in particolare ai più semplici e umili, utilizzando parole ed espressioni comprensibili a tutti.
Questo stile comunicativo ha rinnovato il modo in cui la Chiesa si relaziona con il mondo contemporaneo. Papa Francesco ha promosso, lo si vede chiaramente nell’
Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, l’idea di una “
Chiesa in uscita”: una Chiesa missionaria, capace di andare incontro all’altro, aperta al dialogo e sensibile alle sofferenze e ai bisogni concreti dell’umanità, in particolare di coloro che abitano le “
Periferie esistenziali”.
A Papa Francesco erano molto care alcune parole, tra queste “Fraternità”. Cosa ha voluto dire fraternità nel suo pontificato?
La parola “fraternità” rappresenta uno dei nuclei centrali del pontificato di Papa Francesco. Di fronte a un mondo frammentato, polarizzato e ferito dall’indifferenza, egli ha indicato la fraternità come un cammino di guarigione e di riconciliazione. In questo contesto, ha promosso il dialogo interreligioso, l’inclusione delle persone emarginate e la cura del creato come espressioni concrete e imprescindibili di una fraternità autentica e vissuta. Penso che la Fratelli tutti sia stata una sintesi del suo Magistero.
Nella sua
enciclica Fratelli Tutti (2020), ha sviluppato una visione profondamente evangelica e umanistica della fraternità, intesa come fondamento per la costruzione di società più giuste, solidali e pacifiche.
Una proposta che non si rivolge soltanto alle società o ai Paesi di tradizione cattolica, ma all’intera umanità: “Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!” (FT 8).
Papa Francesco ha proposto la fraternità come un valore cristiano eppure come un’urgenza globale, una chiamata aperta al mondo intero, fondata sul messaggio universale della parabola del Buon Samaritano, al centro del suo pensiero.
Forse, immagino, vedere tutte queste guerre dopo la Fratelli tutti deve essere stato per lui un grande dolore…
Ricordiamo tutti la camminata silenziosa nella piazza deserta quel 27 marzo… Come ha vissuto Papa Francesco quel “silenzio” della pandemia? Che peso dava al silenzio in generale?
Il 27 marzo 2020, all’inizio della pandemia di COVID-19 e nel contesto liturgico della Quaresima, Papa Francesco ha presieduto una preghiera straordinaria sul sagrato della Basilica di San Pietro, in una piazza completamente vuota, quasi immersa nell’oscurità e sotto una pioggia incessante.
Papa Francesco ha vissuto quel momento come un’esperienza di raccoglimento spirituale e di affidamento a Dio, offrendo al mondo una testimonianza di fede, di compassione e di presenza solidale.
Il silenzio che avvolgeva Piazza San Pietro risuonava come un’eco profonda del silenzio di milioni di case in confinamento, del dolore dei malati, del lutto per i defunti e dell’angoscia di un’umanità improvvisamente ferita e vulnerabile.
Quel gesto, profondamente simbolico, è divenuto non solo una delle immagini più iconiche del suo pontificato, ma soprattutto un segno di consolazione e speranza per l’intera umanità, diceva quella sera: “Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti.”
Nel suo pensiero il silenzio non è assenza, ma spazio abitato dalla Presenza. Ha un valore teologico e spirituale profondo: è il luogo dell’ascolto interiore, della voce di Dio che parla nel cuore, della libertà dello Spirito che opera nel silenzio. È, inoltre, condizione privilegiata per il discernimento, inteso come ricerca sincera della volontà di Dio nel tempo e nelle circostanze concrete della vita: “Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio”.
Ma la sua meditazione, e i suoi gesti oltrepassano quella sera e quel momento storico, perché si fanno validi in tutte le crisi e sofferenze, sia personali che sociali… Interessante leggere le sue parole oggi, in mezzo al trambusto delle guerre…
Social, digitale e… umanità. Papa Francesco è stato tra i primi a vedere nella rete una nuova piazza per incontrare le persone. È stato anche organizzato un sinodo Digitale che - per la prima volta - ha parlato di “missionari digitali” . Cosa vuol dire oggi per la chiesa?
La Chiesa con Papa Francesco, ha compreso che è chiamata ad abitare con coraggio e creatività il mondo digitale, riconoscendone tanto le opportunità quanto i rischi.
In un’epoca in cui il digitale permea ogni aspetto della vita quotidiana, la presenza della comunità ecclesiale in questi spazi non può essere né superficiale né marginale.
Nella
Christus Vivit, 86 dice:
“L’ambiente digitale caratterizza il mondo contemporaneo. Larghe fasce dell’umanità vi sono immerse in maniera ordinaria e continua. Non si tratta più soltanto di ‘usare’ strumenti di comunicazione, ma di vivere in una cultura ampiamente digitalizzata che ha impatti profondissimi sulla nozione di tempo e di spazio, sulla percezione di sé, degli altri e del mondo, sul modo di comunicare, di apprendere, di informarsi, di entrare in relazione con gli altri. Un approccio alla realtà che tende a privilegiare l’immagine rispetto all’ascolto e alla lettura influenza il modo di imparare e lo sviluppo del senso critico.”Papa Francesco si è rivelato un pioniere nel riconoscere che il digitale non è soltanto uno strumento da usare, ma un vero e proprio ambiente culturale, un "nuovo Areopago" che richiede discernimento, dialogo e una presenza ecclesiale significativa. In quest’ottica, lo spazio digitale diventa un luogo di missione, un contesto che interpella la Chiesa ad “inculturarsi” per poter annunciare il Vangelo in linguaggi comprensibili e con testimonianze credibili.
Le reti sociali rappresentano, in tal senso, una sorta di nuovo Areopago, dove i cristiani sono chiamati a testimoniare la propria fede con coraggio, carità e misericordia. Non si tratta di occupare spazi per imporre idee, ma di incontrare l’altro là dove si trova, spesso nei margini digitali, portando luce e speranza.
L’esperienza del Sinodo Digitale, durante il quale si è parlato per la prima volta di “missionari digitali”, è un chiaro segno di questa nuova consapevolezza ecclesiale. Evangelizzare oggi significa anche essere presenti nelle piattaforme digitali per ascoltare, dialogare, comprendere le domande profonde di chi vive in quegli ambienti e accompagnarli nella ricerca del senso. Francesco, in un bellissimo videomessaggio ai missionari digitali dice: “Andate a ‘samaritanare’ quegli ambienti (…) Non abbiate paura. Non abbiate paura di sbagliare. Non mi stanco di ripetere che preferisco una Chiesa ferita perché esce verso le periferie esistenziali del mondo, piuttosto che una Chiesa malata perché resta chiusa nelle sue piccole sicurezze. Il Signore bussa alla porta per entrare in noi, ma quante volte bussa alla porta dall’interno per farlo uscire.”