La narrazione comune sui giovani è spesso dura: superficiali, fragili, smarriti. Eppure, dai dati del Rapporto Giovani, l’indagine condotta dall'Istituto Giuseppe Toniolo che costituisce da tempo il più completo e dettagliato strumento di conoscenza della condizione giovanile in Italia, emerge altro: apertura, desiderio di relazioni sane, attenzione per sé e per gli altri.
Le giovani generazioni più soddisfatte della propria vita sono anche quelle più attente a costruire relazioni basate su rispetto, ascolto, reciprocità. Vogliono superare gli stereotipi di genere, desiderano una genitorialità nuova, un linguaggio più inclusivo.
Come scrive il prof. Alessandro Rosina, professore dell’Università Cattolica di Milano e coordinatore del Rapporto Giovani:
“I giovani non sono assenti. Hanno desideri forti e idee chiare. Il punto è: diamo loro lo spazio e gli strumenti per partecipare al presente e costruire il futuro?”
Perché in un tempo in cui spesso si parla di ragazzi e ragazze, ma raramente lo si fa con loro, il Rapporto Giovani 2025 restituisce una fotografia onesta, complessa, utile. Uno strumento utile per genitori, educatori, comunicatori e giornalisti: per ascoltare senza filtri, capire senza giudicare, raccontare con più precisione la realtà delle nuove generazioni.
Il senso della scuola
La scuola, per molti giovani, è il primo luogo dove si costruisce l’idea di futuro. Ma attenzione: non per tutti e tutte questo luogo rappresenta un'opportunità.
I dati parlano chiaro: tra i giovani che vivono in contesti più fragili, il rischio è che la scuola non venga percepita come una risorsa. Anzi: si insinua la sensazione che "non serva a nulla". Ma se non si parte dal "senso", è inutile parlare di strumenti, supporti, piani didattici.
Non un lavoro qualunque
Il lavoro continua a essere un perno fondamentale nella vita dei giovani. Ma non basta più che sia "un lavoro e basta". Le nuove generazioni chiedono un impiego che abbia senso, qualità, dignità.
Un lavoro che permetta di essere indipendenti, di immaginare un futuro familiare, di vivere con stabilità.
Politica: se è concreta, interessa
C'è disillusione, sì. Ma non disinteresse. I giovani intervistati raccontano di una politica lontana, chiusa, poco coerente. Eppure, quando si parla di temi locali, diritti, ambiente, si accende l'interesse.
C'è una richiesta forte e chiara: più spazi veri di partecipazione. Più coinvolgimento, più ascolto, meno retorica. Perché la partecipazione, quando è reale, crea cittadinanza.
Relazioni: oltre gli stereotipi
La narrazione comune sui giovani è spesso dura: superficiali, fragili, smarriti. Eppure, dai dati del Rapporto emerge altro: apertura, desiderio di relazioni sane, attenzione per sé e per gli altri.
Le ragazze e i ragazzi più soddisfatti della propria vita sono anche quelli più attenti a costruire relazioni basate su rispetto, ascolto, reciprocità. Vogliono superare gli stereotipi di genere, desiderano una genitorialità nuova, un linguaggio più inclusivo.
Sempre secondo i dati raccolti, il primo terreno su cui si costruiscono visioni relazionali, ruoli di genere e atteggiamenti verso la violenza è la famiglia. È lì che i ragazzi apprendono – spesso in modo inconsapevole – modelli culturali, relazioni affettive e linguaggi emozionali. E non sempre quei modelli sono positivi. Ad esempio, oltre il 70% dei giovani riconosce come comportamento violento impedire alla partner di avere un conto corrente personale, mentre più del 64% condanna il divieto di lavorare fuori casa. Ma il dato più allarmante riguarda la gelosia, che per molti adolescenti – soprattutto maschi – è ancora percepita come un segno d’amore.
Dalla stessa indagine emerge che quasi il 38% dei giovani considera la violenza contro le donne “molto diffusa”, con una netta differenza di genere: lo pensa il 22,3% dei maschi e ben il 50,1% delle femmine. La consapevolezza cresce, ma in modo diseguale. E mentre la società sembra faticare a elaborare una risposta sistemica, l’esperienza vissuta e osservata della violenza – spesso nel contesto familiare o amicale – racconta che il problema non è “altrove”, ma accanto a noi.
In questo scenario, qual è il ruolo delle famiglie e della scuola? Cosa possono fare, concretamente, per sostenere il cambiamento culturale in atto? Ne abbiamo parlato con la professoressa Cristina Pasqualini, docente di Sociologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e ricercatrice nell’ambito delle scienze sociali, con particolare attenzione ai temi delle nuove generazioni, della parità di genere e della prevenzione della violenza sulle donne. È componente dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, per il quale coordina e partecipa a indagini nazionali sui vissuti, gli atteggiamenti e i valori degli adolescenti e dei giovani adulti italiani, in particolare riguardo agli stereotipi di genere, alle dinamiche relazionali e ai fenomeni di violenza.
Prof.ssa Pasqualini, in questo 2025 i casi di femminicidio da parte di under 25 sono stati troppi. Cosa non sta evolvendo nella nostra società?
Se guardiamo i dati delle ricerche, in particolare quelli dell’indagine “Rapporto Giovani”, notiamo qualcosa di interessante: nella generazione attuale e nelle famiglie che l’hanno generata sembra essere in corso un cambiamento culturale significativo. Le famiglie dei giovani di oggi hanno caratteristiche diverse rispetto alla generazione precedente, in quanto gli stereotipi con cui sono cresciuti stanno cambiando. Con gli strumenti adeguati possiamo immaginare di poter andare verso comportamenti più virtuosi rispetto al passato. Spesso giudichiamo i giovani di oggi senza guardare ai giovani di ieri, cioè a quelli che li hanno cresciuti.
Oggi i ragazzi e le ragazze sembrano divisi tra prodotti culturali che promuovono inclusione e altri – come film, musica o libri del genere romance – che rafforzano modelli relazionali disfunzionali. Sono consapevoli di questo?
Se ci atteniamo ai dati, possiamo dire che molti giovani oggi hanno fatto esperienza – anche solo indiretta – della violenza. Non parlo solo di violenza subita in prima persona, ma anche osservata: episodi avvenuti in famiglia, tra amici, o nel proprio ambiente più vicino. Hanno visto madri, sorelle, amiche subire violenza. Questo ci dice che la violenza non è un fenomeno distante, astratto: è dentro le case. Tendiamo a guardare la violenza come un problema “altro”, che riguarda l’immigrazione o Internet. Ma non è così. La violenza è tra noi. E poi c’è un evento che ha rappresentato uno spartiacque: il caso di Giulia Cecchettin. È stato diverso dagli altri perché ha fatto scattare qualcosa nei giovani. Hanno cominciato a informarsi davvero, a cercare fonti attendibili, a prendere consapevolezza. Hanno capito che la violenza non è solo un rischio per “gli altri”, ma può riguardare chiunque.
Cosa ha reso così rilevante il caso Cecchettin rispetto ad altri femminicidi?
Credo siano due i fattori. Il primo: la società era pronta, c’era già in atto un cambiamento culturale. Il secondo: la narrazione è stata diversa. Il comportamento del padre e l’attivismo della sorella hanno avuto un impatto enorme. Non c’è stata rabbia cieca o desiderio di vendetta, ma una richiesta di trasformare il dolore in qualcosa di utile, affinché non accada più. È stato potente. Forse per la prima volta abbiamo visto una famiglia reagire così. È stato un insegnamento per tutti.
Qual è, oggi, il ruolo delle famiglie e della scuola in questo cambiamento? Cosa possono fare concretamente?
Famiglie e scuole oggi sono fragili, fanno fatica. Ma restano due pilastri educativi fondamentali. Andrebbero sostenute di più dal sistema Paese, insieme alle altre agenzie educative. Serve davvero un’alleanza educativa, e non solo a parole. Dobbiamo lavorare a livello territoriale, nazionale e internazionale per trasmettere un messaggio comune: la violenza non deve più esistere.Questo non si ottiene con misure coercitive, ma con percorsi educativi, esempi virtuosi, testimonianze reali. I ragazzi stessi ci chiedono educazione alla parità di genere. Allora diamogliela. In famiglia, con comportamenti rispettosi tra i genitori. A scuola, con insegnanti che rispettano gli studenti – e viceversa. Serve reciprocità, rispetto, buone pratiche. Così si creano gli “anticorpi” che serviranno nella vita adulta, nei contesti più complessi.
In questo processo, i social media aiutano o ostacolano il cambiamento?
I social fanno parte del mondo dei ragazzi, non possiamo ignorarli. Personalmente li considero uno strumento, non un nemico. I rischi ci sono, certo, ma si può e si deve imparare a usarli in modo consapevole. All’università, i miei studenti mi hanno raccontato episodi inquietanti: video compromettenti condivisi nei gruppi WhatsApp, sondaggi offensivi, commenti assurdi. Eppure, alcuni di loro iniziano a prendere le distanze, a scegliere di non alimentare questi comportamenti. Alcuni agiscono, denunciano, parlano. Non sono insensibili. Hanno capito, almeno in parte. E anche solo un “semino” di consapevolezza, se piantato bene, può dare frutto. Per questo dobbiamo continuare a seminare. Ognuno faccia la sua parte.
Il
Rapporto Giovani 2025 è da pochi giorni in libreria. Un invito alla lettura per chi vuole comprendere davvero la realtà delle nuove generazioni. E un invito all'ascolto per chi lavora con le parole, con le persone, con l'informazione.