Non è (solo) questione di età
Ogni generazione cresce dentro un vocabolario diverso. Ci sono parole che proteggono, parole che liberano, parole che dividono. E a volte basta un’espressione –“ai miei tempi”, “i giovani di oggi”, “ok boomer”– per far scattare una distanza che non riguarda l’età, ma il modo in cui ciascuno ha imparato a stare al mondo.
Il punto non è capire “chi ha ragione”: il punto è che ogni generazione abita un paesaggio tecnologico, culturale e relazionale diverso. E per capirsi serve una lingua che faccia da ponte, e non da confine.
Etichette come gabbie
Boomer, Millennial, Gen Z, Gen Alpha… definizioni nate come descrizioni sociologiche che si sono trasformate in scorciatoie emotive: a volte ironiche, a volte affettuose, spesso divisive.
Gli studi più recenti sulle differenze generazionali nell’uso della tecnologia mostrano un quadro interessante: sì, esistono differenze nell’adozione di strumenti digitali, ma sono molto meno nette di quanto pensiamo. La verità è che le etichette funzionano come tutti i linguaggi rapidi: avvicinano chi le usa, ma possono escludere chi ci cade dentro. Insomma: il problema non è l’età, ma l’idea che il proprio modo di stare nel digitale sia quello giusto e universale.
È una questione di fiducia
Le persone cresciute prima o a cavallo dell’era digitale hanno imparato a vedere il web come uno strumento. Quelle che ci sono cresciute dentro… lo vivono come un ambiente.
Le ricerche europee sulle competenze digitali dicono che quasi tutte le generazioni hanno accesso alla tecnologia; ciò che cambia è la modalità e le finalità con cui la si utilizza. Il divario perciò non sta nell’accesso al digitale, ma nella fiducia in esso.
Le persone più grandi spesso temono di “rompere tutto”. Le più giovani hanno paura di “non trovare posto”. Due fragilità diverse che possono aiutarsi a vicenda, attraverso la fiducia.
E non a caso, la parola dell’anno scelta da Treccani per il 2025 è proprio questa:
fiducia! In un tempo attraversato da incertezze e da un lessico digitale che può frammentare invece di unire, la fiducia diventa l’elemento che permette di avvicinarsi senza stare sulla difensiva, di ascoltare senza temere il giudizio, di riconoscere che dall’altra parte c’è qualcuno con un’esperienza diversa, ma non necessariamente incompatibile con la nostra. È, come ricorda Treccani, un “atteggiamento di tranquilla sicurezza”, qualcosa che nasce dall’apertura verso gli altri e le altre.
E nel dialogo intergenerazionale questo è decisivo: senza fiducia, ogni differenza diventa sospetto; con la fiducia, la differenza torna a essere risorsa. Fidarsi significa concedere spazio alla curiosità, lasciare che un linguaggio sconosciuto – uno slang, una emoji, un modo diverso di raccontarsi – non diventi motivo di distanza, ma occasione per capire come si trasforma il mondo dentro chi lo abita. È un gesto che richiede reciprocità: si offre fiducia e, nel farlo, si invita l’altra persona a fare altrettanto.
I “dialetti” digitali
Le barriere generazionali non nascono solo dalle tecnologie, ma dai linguaggi che ci costruiamo intorno. Pensiamo alle differenze linguistiche più evidenti tra generazioni nella comunicazione social: i cosiddetti “boomers” usano emoji come 🙂 o 👍 per confermare, mentre i “millennial” e la “Gen Z” li usano ironicamente; la “Gen Alpha”, poi, comunica spesso senza parole, solo con sticker, reaction e micro-formati audiovisivi.
È un mondo di dialetti digitali, dove ogni generazione “sente” un significato diverso anche quando la forma è la stessa. Un esempio emblematico è dato dalla
parola dell’anno scelta da Dictionary.com per il 2025: “67”, da leggersi
six seven. A leggerla così, sembra non voler dire niente, giusto? Eppure racconta molto del modo in cui comunichiamo oggi. “67” è nata online, si è fatta strada nei feed e ha trovato casa soprattutto tra le ragazze e i ragazzi della Gen Alpha, che l’hanno trasformata in un segno di riconoscimento. Non indica un oggetto, un’emozione o un’idea precisa:
funziona per quello che evoca, non per quello che descrive.
È qui che sta la sua forza. “67” mostra come il linguaggio digitale viva di ritmo, intuizioni e complicità più che di definizioni. E come stia diventando un elemento fondamentale del nostro quotidiano: entra nelle relazioni, nelle conversazioni di lavoro, nella cultura che consumiamo e condividiamo.
Un lessico che cambia in tempo reale, insieme a noi, e che ogni giorno ridisegna il modo in cui ci parliamo e ci capiamo.
Un nuovo modo per stare insieme
Se c’è una cosa che le ricerche più recenti dicono chiaramente è che la tecnologia non crea solo distanza: crea
opportunità di legame.
Uno studio sul ruolo dei media digitali nelle relazioni tra generazioni mostra che chat, social e videochiamate possono rafforzare la continuità del contatto e il senso di vicinanza, e così contribuire a rendere le relazioni più assidue, quando sono usati come spazi di scambio e non solo come “strumenti tecnici”.
Uno studio condotto in Italia conferma allo stesso modo che nel nostro Paese il contatto digitale tra nonni e nipoti – dai messaggi alle videochiamate – è associato a relazioni percepite come più strette e presenti nel tempo. La condivisione di competenze digitali anche minime aumenta la percezione di fiducia reciproca tra generazioni distanti. Perché il digitale, se vissuto insieme, diventa uno spazio per raccontarsi, ma anche un terreno neutro dove esplorare il nuovo senza giudizio, oltre a una preziosa palestra di linguaggi dove nessuno finisce per sentirsi “fuori posto”.
Comunicare oltre gli stereotipi
Un dialogo intergenerazionale sano richiede un cambio di postura… e di vocabolario. Per ottenerlo, è utile fare continuo riferimento a una serie di punti chiave.
Evitare i “tu sei così”
“Voi giovani non ascoltate”, “voi adulti non capite la tecnologia”: le generalizzazioni generano difesa, non dialogo.
Meglio:“Mi spieghi come usi questa piattaforma?","Cos'è che ti piace di questo social?”
Rispettare le differenze
I timori verso il massiccio utilizzo di smartphone e media digitali in infanzia e adolescenza poggiano su basi solide. La Società italiana di pediatra mette in guardia contro
i rischi dei media digitali in età evolutiva: un loro uso precoce e non controllato provocherebbe rischi per sonno, vista e salute fisica, aumento di ansia e depressione, ritardi nello sviluppo cognitivo, dipendenze, cyberbullismo e esposizione a contenuti sessuali inappropriati. I social e i media digitali non sono però solo luoghi di esposizione, ma anche spazi di relazione, creatività, apprendimento e scoperta identitaria. Vietarli in blocco significherebbe ignorare le opportunità che offrono alle nuove generazioni per sperimentarsi e trovare comunità. La questione non è scegliere tra “tutto” o “niente”, ma costruire
contesti sicuri, accompagnare l’esperienza e insegnare un uso consapevole. In altre parole: educare, non proibire.
Chiedere il significato invece di giudicare lo slang
Non si tratta di imparare il gergo: si tratta di capire cosa comunica. Ogni espressione apre una finestra sul mondo dell’altra persona e su come interpreta la realtà. Quando questo non accade, il rischio è scivolare in piccole frasi che sembrano innocue ma feriscono: “Io alla tua età…”, “Sei troppo giovane per capire”, “Sembra più vecchio dell’età che ha”. Sono micro-aggressioni sottili, che irrigidiscono il dialogo e chiudono il passaggio tra un linguaggio e l’altro. Chiedere invece “Vorrei capire cosa significa l’espressione che hai appena usato, me la spiegheresti?” permette di spostarsi dalla difesa alla curiosità: è lì che le generazioni iniziano davvero a capirsi.
Usare il digitale come luogo di complicità, non sorveglianza
Condividere link, inviare foto, commentare lo stesso video: piccoli gesti che creano continuità. Lo conferma la letteratura accademica: la comunicazione digitale rafforza i legami intergenerazionali quando non è usata per controllare, ma per partecipare.
Dal “gap” al lessico comune
Le generazioni non sono isole. Sono archivi di esperienze diverse. E ogni volta che ci parliamo – dentro una chat, con un vocale, con una emoji – costruiamo una lingua nuova che diviene tanto più nostra quanto più la coltiviamo. Il gesto più rivoluzionario, oggi, non è “capire i giovani” o “rieducare gli adulti”: è imparare a tradursi. Perché quando il linguaggio diventa un luogo di incontro, il digitale smette di essere un fossato e torna a essere ciò che dovrebbe essere: uno spazio in cui costruire legami, non distanze.
Vuoi approfondire l’argomento? Ecco due risorse preziose per comprendere la necessità di costruire ponti comunicativi tra generazioni.
Madre e figlio: Mapi Danna e Jodi Cecchetto sul linguaggio delle generazioni, terza puntata di “Diciamolo bene”, il podcast di Parole O_stili in collaborazione con ENI.